Lontano da Smirne il paesaggio è rurale. Nell’aria afosa si condensano archeologie e rovine, momenti di assenza tangibile e nitida lettura. Il passato si concede nudo e con la sua testimonianza offre un dialogo, solenne, che deroga per un poco all’impero del qui- e-ora. Ma sotto il sole non tutto è antico. Nella campagna turca le rovine sono episodi che costellano un’agricoltura infrastrutturata che coagula in distese interminate di serre. Qui la chiarezza della lettura è data da un quadrillage inesauribile che circoscrive lo spazio. Questo orizzonte è trafitto dalle sparse guglie dei minareti. Sono stelle polari e punti cardinali, promessa di chiarezza al di là del susseguirsi di plastica e metallo.
La strada prosegue, la campagna arranca, la città incombe. Smirne ci riceve ed è subito uno scarto: l’orizzonte lascia spazio alla densità, la lettura al subbuglio. La città caotica seduce e allo stesso tempo confonde, ci ammalia e si nasconde nella sua imprendibilità. Alziamo lo sguardo, ma non è un minareto a prometterci un ordine cardinale: le rovine di Kadifekale si stagliano sulla gobba che domina il porto. L’ascesa è un forte richiamo. Il suo percorso in salita fende un quartiere che non asseconda la vitalità trascinante più in basso. Qui non c’è una città che sale, ma case uomini donne bambini che restano: il passato è appena tangibile. Alziamo lo sguardo, solo il cielo sopra di noi. La città si estende sulla piana ma nell’archeologia della fortezza non c’è più una chiara lettura. Le sue rovine sono episodi abbandonati a sé stessi, soffocate nella polvere e nel degrado noncurante che le assedia. La vista si volge e si apre: nella città che si espande la promessa un tempo suggerita dai minareti prende forma negli inesauribili alti simulacri di cemento. Discesa.